L’arte (mutevole) di raccontare la realtà

Giorgio Mulè

Non è il mio mestiere quello di guidare il vostro sguardo per farvi apprezzare la bellezza dei dipinti ospitati in questa mostra. Per assolvere quel piacevole compito – non ho dubbi - saranno più che sufficienti i vostri occhi e la vostra sensibilità. Tanto meno, il mio mestiere è offrire un compendio critico sull’opera di Alessandro Russo. Per quell’incombenza vi rimando ai saggi che seguono in questo volume: chi avrà la pazienza di leggerli, troverà un sostegno utile a comprendere la pittura del Maestro da ogni punto di vista. Il mio contributo, qui, è un altro. È potermi compiacere di una scelta felice: aver visto nella Milano di Alessandro Russo l’occasione perfetta per offrire un punto di vista originale sulla città che rinasce, si trasforma, cresce, sulla metropoli che riflette sul proprio ruolo di capitale economica, centro propulsore di creatività, sintesi di tradizione e innovazione. Nessun artista contemporaneo, meglio di Alessandro Russo, poteva dunque incarnare lo spirito con il quale il tour «Panorama» d’Italia si è posto la sfida di raccontare, mostrare e valorizzare le eccellenze di Milano. Nei dipinti che vedrete, Milano è protagonista con i suoi simboli eterni e con quelli del recente cambiamento. A fianco delle tante opere che hanno per soggetto il Duomo o la Stazione Centrale, sfilano le trasformazioni che gli architetti hanno recentemente impresso a interi quartieri della città. Né idealizzata né cartolina, la città di Russo è allora la vera città di oggi: la metropoli dove le pietre della storia danno asilo a una comunità nuova, fatta di bisogni inediti, animata dalla consapevolezza che il presente va inteso come il progetto continuo di un futuro sostenibile, di un miglioramento possibile, della volontà di gareggiare ad armi pari con le più effervescenti capitali europee. Presentare concretamente, in un’esposizione e in un catalogo, il lavoro di questo artista è allora per noi di «Panorama» un’occasione in più per mettere in pratica un nuovo tipo di giornalismo, uscendo dal guscio chiuso di una redazione e riconnettendoci con i lettori in modo nuovo: «da vicino», portando loro l’opportunità di godere di un’esperienza «dal vivo», e al tempo stesso (grazie a quell’esperienza) di riflettere sui contenuti di quel confronto diretto. Guardare la Milano di Russo significa puntare i fari sul modo in cui la città è cambiata e sta cambiando, abbeverarsi alla fonte della bellezza per riflettere sui mutamenti sociali, interrogarsi sul passato e sul futuro di una metropoli in divenire. Guardare l’opera di Russo significa dunque osservare una città che si mette in moto per raggiungere l’eccellenza. Ed è proprio questa parola, «eccellenza», che il nostro tour insegue in ogni sua forma da quattro anni a questa parte. «Panorama d’Italia» è un viaggio che ogni anno tocca dieci città italiane e ne esalta, in quattro (o più) giorni di appuntamenti per ciascuna, le caratteristiche di preminenza nei settori più diversi, dall’imprenditoria alla politica alla cultura, dallo spettacolo fino all’enogastronomia. E sono per noi un vanto, ancor più che una consacrazione, le parole che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha offerto a sostegno della nostra iniziativa, lo scorso anno, cogliendone mirabilmente il senso. Diceva Mattarella: «Valorizzare le eccellenze di cui l’Italia è ricca, far crescere le conoscenze e le opportunità, favorire la coesione sociale e, grazie ad essa, la fiducia nel futuro. Sono questi gli obiettivi e i valori di una cittadinanza moderna, consapevole delle sfide che si presentano davanti al Paese. E va a merito di «Panorama », periodico autorevole, che per decenni ha raccontato, indagato, analizzato lo sviluppo della nostra società, averli posti alla base del suo dialogo con il pubblico, sperimentando anche nuove occasioni di incontro e coinvolgendo nel confronto personalità della cultura italiana, dell’arte, della scienza, dell’industria». Ebbene, queste «occasioni d’incontro» (tra talk show, dibattiti con i protagonisti della politica nazionale, convegni e spettacoli), hanno fatto registrare, in tre anni, numeri straordinari. Solo per dare una cifra, sono state 13 milioni le persone raggiunte da «Panorama d’Italia» grazie alle partecipazioni agli eventi e al riverbero che gli stessi eventi hanno avuto sui diversi media, dai social network alle dirette in streaming. In questa sontuosa contabilità, l’arte ha avuto sempre un ruolo di primo piano, attraverso le lectio magistralis che hanno svelato i tesori nascosti di ogni territorio e grazie alle visite guidate negli angoli meno raccontati del nostro patrimonio storico-artistico. Nemmeno a Milano potevamo risparmiarci. Ma questa volta abbiamo voluto sommare una tessera alla costruzione del nostro immenso mosaico. Al racconto del patrimonio locale del passato, in questa tappa si è voluta aggiungere anche una rassegna d’arte contemporanea. È la prima volta che lo facciamo e ne siamo orgogliosi. Non soltanto perché riteniamo che le opere di Alessandro Russo contengano un bellissimo e irripetibile racconto della nuova Milano, ma anche perché siamo convinti – sempre di più - che nessun linguaggio possa ormai bastare a se stesso nella costruzione di un nuovo modo di fare giornalismo. Offrendovi questa esperienza facciamo un passo in più in quel territorio che ormai da quattro anni stiamo felicemente esplorando, incontrando il nostro «popolo» sul «territorio», e condividendo con esso la «sovranità» del confronto delle idee. Accettate dunque il nostro invito a riflettere su Milano a partire dalla pittura. Inoltriamoci insieme in un luogo dove poter unire la bellezza all’informazione. Qualunque sia l’esito di questo confronto, per noi di «Panorama» sarà stato un modo (ulteriore) di aggiornare quell’antica disciplina che è il nostro vero mestiere, ovvero l’arte (nobile, mutevole, ma sempre più necessaria) di raccontare la realtà.

 

The Art (Sometimes Variable) of Narrating Reality

Giorgio Mulè

It is not my profession to be a guide and make you appreciate the beauty of the paintings present in this exhibition. I have no doubt that your eyes and sensitivity will be more than enough to fulfill that pleasant task. Nor is it my responsibility to provide a critical summary of Alessandro Russo’s work. For that, I will refer you to the wise writers who follow in this volume. Whoever reads these critical texts will find a useful comprehension and support in understanding the Master’s picture from every viewpoint. No, my contribution here is of a different nature. I can be happy with a happy choice: having found in Alessandro Russo’s Milan the perfect occasion to offer an original viewpoint on the city. Milan is reborn, transforming, growing; it is a metropolis which reflects its role as an economic capital, a driving force of creativity and a synthesis of tradition and innovation. There is no contemporary artist better than Alessandro Russo who embodies the spirit of Milan. His paintings evoke the similar spirit of the «Panorama d’Italia» tour which seeks to recount, display and value the excellence of Milan. In the paintings which you will see, Milan is the protagonist - both with its eternal symbols as well as those of recent development. In many of Russo’s works which depict Milan’s Cathedral or Central Station as the subject, we see architectural transformations that have recently appeared in the city’s neighborhoods. Neither idealized nor a mere postcard image, Russo’s Milan is instead the true city of today. It is a metropolis where the stones of history shelter a new community. This new community has unprecedented needs and is animated by the fact that today one must work toward a sustainable future. In pursuing possible improvement, this community indeed possesses the will to compete with the most effervescent European capitals. For us at «Panorama», the opportunity to concretely present Alessandro Russo’s work in both an exhibition and a catalogue is an extra occasion to put into practice a new type of journalism. We are free to leave the closed shell of an editorial and reconnect with readers in a new «close up» way. We present our readers the opportunity to enjoy a «live» experience and a chance to reflect on the content of that direct encounter. Looking at Russo’s Milan signifies pointing torchlights on the way in which the city has changed and continues to change. We drink at the fountain of beauty in order to reflect on Milan’s social variables and question ourselves about Milan’s past and the future to come. Looking at Russo’s work signifies, therefore, observing a city which has put itself in the path toward excellence. And it is exactly this word «excellence» which our tour follows in all of its forms for the last four years. «Panorama d’Italia» is a voyage which every year touches ten Italian cities and respectively exalts them in four (or more) days of appointments, involving their preeminent characteristics in the most diverse sectors, from business enterprises to politics to culture, from entertainment to food and wine connoisseurship. Last year, the President of the Italian Republic, Sergio Mattarella offered support for our initiative and left us with words which are indeed a source of pride, or, better still, a consecration. In prescient words, Mattarella explained «Enhancing the excellence in which Italy is rich, increasing knowledge and opportunities, fostering social cohesion, and, therefore, faith in the future, are all objectives and values of the modern citizen who is aware of the challenges facing the country. Much credit is due to «Panorama», an authoritative periodical, which for decades has told, investigated and analyzed the development of our society. This foundation is at the base of its public dialogue, as «Panorama» experiments with new opportunities to encounter and involve personalities from Italian culture, art, science and business in its activities.» Well, these «encounter opportunities» (talk shows, debates with national political protagonists, conferences and shows) have registered extraordinary numbers in three years. To cite one specifically, Panorama d’Italia reached 13 million people thanks to participation in events and the reverberations that these events created on various media, from social networks to direct streaming. In this lavish bookkeeping, art has always held a prominent role, through the lectures which have unveiled hidden treasures from every territory, as well as the guided tours in the least talked about corners of our historical-artistic heritage. We could not spare even Milan. But this time, we wanted to add to the construction of our immense mosaic. In the story of Milan’s heritage, we wanted to add a contemporary art exhibition. It is the first time we have done so and we are very proud. Not only do we believe the works of Alessandro Russo contain a beautiful and unique story of the new Milan, but because we are convinced – and increasingly so – that no language can suffice by itself in the new way of journalism. Offering this experience, we take a further step into the territory which we have happily been exploring for four years, meeting our «people» in their «territory» and sharing with them its «sovereignty» in the comparison of ideas. Thus, beginning with a painting exhibition, we ask you to accept our invitation to reflect on Milan. Let’s venture to a place where we can unite beauty with information. Whatever the outcome of this comparison, for us at «Panorama», it will be a further method to add to the antique practice of our true profession, or, rather, art. Indeed, the noble, variable and always more necessary art of narrating reality.

 
 

La città dipinta

Antonio Carnevale

Milano, la città dipinta», così recitano il titolo di questa mostra e quello del relativo catalogo che avete tra le mani. «Città dipinta» non certo nel senso di «urbs picta», come doveva apparire la città lombarda agli occhi dei nostri antenati cinquecenteschi, con le facciate di molti palazzi del centro colorate, decorate, istoriate. Milano è invece in queste opere di Alessandro Russo «città dipinta» perché vista e tradotta in pittura, osservata e riportata sulla tela col suo sapore nuovo, contemporaneo, volto al futuro, e con una tecnica pittorica difficile da equiparare ad alcune recenti vicende artistiche, ancorché affini. Vedute urbane, archeologia industriale, stazioni ferroviarie, cattedrali nel cuore delle metropoli, grattacieli: ogni paesaggio è reso qui grazie a uno stile perentorio, a una grammatica pittorica perfetta, dove i dettagli sono affermati per sottrazione, cancellando anziché aggiungendo, non coprendo semplicemente il disegno ma innovando un linguaggio che continua a nutrirsi della grande arte italiana ed europea del passato, dal Rinascimento alle grandi avanguardie, senza rinunciare alla sperimentazione. Vitalità della figurazione, insomma. Né puro realismo (tanto meno iperrealismo) né astrazione, piuttosto una terra di mezzo, che si muove tra gli antipodi e li concilia, grazie a una sintesi che di volta in volta tende verso uno degli estremi, con la materia squillante o pastosa dell’acrilico su carta quanto con la maestosità morbida e profonda, sensuale, dell’olio su tela. Rarissima, di questi tempi, è la determinazione a non abbandonare quel patrimonio tecnico che nel passato aveva reso grande l’arte italiana e che oggi, nella mente di moltissimi artisti, è quasi statutariamente trascurato in funzione di un’imprecisata superiorità dell’idea sulla tecnica. Russo invece non abdica alle possibilità della pittura. Non solo. In un panorama internazionale dove il sistema dell’arte contemporanea sembra stentare a riconoscere (salvo pochissime eccezioni) l’attualità e le possibilità d’innovazione della pittura figurativa, le città di Russo s’impongono anche per la loro capacità di non scadere nella mera «descrittività»: gli scorci di fabbriche divengono strutture astratte; le stazioni ferroviarie assumono il valore di un paesaggio dove la pittura non è mai didascalica bensì entità autonoma, chiave d’accesso non alla riproduzione di un luogo bensì alla presentazione del suo senso più intimo. Eccoci dunque nella pittura di Russo. Eccoci nella sua città dipinta. Ed eccoci a Milano: nella recente produzione pittorica di Russo, la metropoli lombarda ha un ruolo da protagonista. Lo sguardo dell’artista ne traduce in pittura il nuovo status di «organismo vivente », quel carattere di eterno cantiere che la metropoli ha ripreso a incarnare: quell’impasto di cemento-acciaio- entusiasmo che aveva infervorato i primi anni del secolo scorso e che poi si era invece involgarito nel garbuglio della speculazione edilizia. Oggi Milano ha cambiato pelle. La città ha interi meravigliosi quartieri che possono apparire irriconoscibili a chi non li frequentasse da qualche anno. La mutazione in corso ha incarnato lo stesso spirito che ha investito la trasformazione altre importanti capitali europee. E non è un caso se l’esibizione della scena metropolitana sia diventata ormai un tema straordinariamente amato da artisti e fotografi internazionali degli ultimi decen ni. Nelle opere di Russo, però, questa rigenerazione architettonica si lega a doppio filo con la declinazione moderna della grande pittura figurativa. Eccoci allora nella serie «Profili urbani», dove Russo ha colto il valore innovativo di una città che boccionianamente ha ripreso a salire, modificando il proprio skyline, aggiornando le proprie prospettive. Molte sono le opere che hanno per soggetto il quartiere Garibaldi, ritratto da Russo nella sua fase di trasformazione e poi nel suo nuovo definitivo assetto. Milanesissima è la serie «I Duomi»: 19 vedute della cattedrale milanese alla quale il pittore restituisce il valore di cantiere vivo, offrendone un’immagine non stereotipata ma inserendola invece in un tessuto pulsante di vite umane (spesso semplicemente evocate nel loro infinito sciamare), senza rinunciare a un’espressione astrattizzante che scongiura il pericolo didascalico annidato in un soggetto così ingombrante. Un riferimento a Milano è evidente, inoltre, nell’insistenza di Russo sulle vedute della Stazione Centrale, sineddoche di un mondo plurale, connesso all’Europa del presente ma anche all’Italia della memoria, scenario di drammi e speranze, gigantesca balena inquadrata negli scorci che mescolano in sé la cristallina prospettiva di Piero della Francesca con le linee di forza futuriste. Pur indirettamente, infine, rimandano a Milano le tele degli ultimi anni che per soggetto hanno l’archeologia industriale e i porti del Sud: le aree industriali abbandonate e i bastimenti fermi al molo, in attesa di una possibilità, sono luoghi che denunciano tutte le aspettative deluse di un’industria e di un commercio che non ci sono più, radiografia sentimentale di una crisi economica e canto muto di un paesaggio che resiste a se stesso. Le opere di Alessandro Russo, allora, si pongono oggi come «memento» per una politica che per diversi decenni non ha saputo riqualificare i luoghi strategici di un’economia e di una visione nazionale. Russo ricorda a Milano l’importante sfida di favorire un futuro virtuoso, la saggezza di non ricadere negli errori del passato. E al contempo celebra la città che nella sua recente trasformazione architettonica (nella nascita di nuovi quartieri residenziali, nel rilancio e modernizzazione della propria struttura urbana) ha felicemente risvegliato il sogno di una metropoli che vuole crescere ancora, dimostrando di poter stare al passo con le più importanti capitali del mondo. Magari, ottimisticamente, superandole.

 

The Painted City

Antonio Carnevale

The title of this exhibition and the catalogue which you have in hand declares, «Milan, the Painted City». Not in the sense of «urbs picta» such as it must have appeared to our Lombardic ancestors in the 1500s, with central Milan boasting the facades of many colorful, decorated and adorned palaces. Instead, as in the paintings of Alessandro Russo, Milan is the «painted city» because it is seen and translated, observed and brought to canvas with a new contemporary zest, and turned toward the future. This is accomplished through a pictorial technique difficult to equate with recent artistic events, albeit alike. Urban views, industrial archaeology, railways stations, cathedrals in the hearts of cities, skyscrapers. Every landscape is here thanks to a peremptory style and a perfect pictorial grammar, where details are affirmed by subtraction, erasing instead of adding and not only covering the design but innovating a language. This language nurtures itself from the great Italian and European art of the past, from the Renaissance to the avantgarde, without renouncing experimentation. In short, Russo masterfully achieves a vitality of figuration. It is not pure realism (much less hyperrealism), nor is it abstraction. It is the middle ground where one moves among the antipodes and reconciles them, thanks to a synthesis that from time to time tends toward one of the extremes. The extremes are exemplified by the choice of either vivid or subdued acrylic on paper. With either color shade, Russo realizes the same soft, profound and sensual majesty that oil on canvas projects. In these times, it is extremely rare to find an artist who is determined to continue the patrimonial technique which made Italian art great. Today, in the minds of many artists, it is almost a neglected statutory due to a sense of unprecedented superiority. Russo embraces his artistic inheritance and does not exclude its possibilities. Not only that. In an international panorama where the contemporary art system seems to struggle to recognize (except for a few exceptions) the current and innovative possibilities of figurative painting, Russo’s cities are imposing for their ability not to fall into mere «descriptiveness. » We have glimpses of factories which become abstract structures. Railway stations assume the value of landscape where painting is never didactic but rather an autonomous entity, evoking access to an intimate sense of a place. Thus, here we are in the painting of Russo. Here we are in his painted city. And here we are in Milan. In Russo’s recent pictorial productions, the Lombardic metropolis reigns as protagonist. The artist’s Milan possesses a newfound «living organism» status, the eternal sense of a building site which the city evokes. It is the mix of cement-steel-enthusiasm which illuminated the early years of the last century and then which became vulgar during the ensuing mess of construction speculation. Today Milan has changed skin. The city has marvelous neighborhoods that may seem unrecognizable to those who have not visited them for several years. The mutation in progress is the same which has affected other important European capitals. It is not sheer happenstance that in recent decades the exhibition of the metropolitan scene has became an extraordinary theme loved by international artists and photographers. In Russo’s works, however, this architectural transformation is doubly tied to the modern declination of great figurative painting. Here we are in the «Urban Profiles» series, where Russo cultivates the innovative value of a city which has resoundingly resumed climbing, modifying its skyline, updating its prospects. The Garibaldi neighborhood is the subject of many works, portrayed by Russo in its phase of transformation and later in its definitive layout. The series «The Cathedrals» is extremely Milanese: nineteen viewpoints of the Milan cathedral. In each, the painter evokes the sentiment of a live building site, offering an unstereotypical imagine and putting the cathedral in the vibrating fabric of human life (often simply depicted by an infinite swarm). Russo’s work is not a sacrifice an abstract expression nor does it heed the didactic danger of a «cumbersome» subject. A reference to Milan is evident in Russo’s insistent portrayal of Stazione Centrale (Milan’s central station), a dual world which is connected to current Europe and also memories of an Italy of the past. It is a scenario of dramas and hopes, a giant whale framed in blending views which recall Piero della Francesca’s crystalline perspective with lines of futuristic force. Indirectly, in the end, we refer to the canvases of the last years which have industrial architecture and southern ports as subjects. A sense of waiting and despair pervades. Abandoned industrial areas and ships firmed at piers are realities which denounce all the disappointed expectations of an industry and a trade that no longer exist, sentimental radiographies of an economic crisis and the haunting silent song of a landscape. Alessandro Russo’s works stand today as a «memento» of the politics which for several decades have not been able to develop economic strategic sites and a national vision. Russo’s Milan reminds us that the important challenge is fostering a virtuous future and wisdom is not falling into the errors of the past. At the same time, Russo’s work celebrates a city in its recent architectural transformation (in the birth of new residential neighborhoods, in the relaunch and modernization of urban structures). This transformation has happily reawakened the dream of a metropolis which still aspires to grow, displaying itself capable of staying in step with the most important capitals of the world. Maybe even, optimistically, overpassing them.

 
 

Milano di nascosto

Marco Di Capua

Ci siamo mai chiesti perché la città, nel tempo, non abbia visto nemmeno intaccare la sua enorme riserva di fascino esercitata sugli artisti? Per questi sembra infatti continuare ad essere un magnete dalla forza di trazione irresistibile. Magari simile a quella di un pianeta metallico, pietroso, ostile. Forse addirittura pericoloso. E tuttavia ne siamo certi: gli artisti non la molleranno mai una scena così. Su quel pianeta atterreranno sempre. Piantando bandierine, scattando foto, puntando videocamere, prendendo appunti, lasciando orme. E dipingendo quadri, ovviamente. Guardate l’arte del XX secolo: tra i suoi più bei dipinti forse ci sono proprio quelli con paesaggi urbani. Tanto che noi, sporgendoci dall’esile balconata di questo primo 2000, finiamo ancora col sentirci i devoti nipotini di Ludwig Kirchner, Mario Sironi, Edward Hopper. Di fatto, anche per rispondere alla domanda così improvvidamente posta all’inizio, c’è che la rappresentazione della città, di ciò che senza paragoni appare come il più vasto, mutevole e spettacolare congegno estetico inventato dall’uomo (in un’armonica divisione dei compiti, chiaramente percepibile dall’alto, magari dall’oblò di un aereo: se Dio ha creato il cielo e la terra, noi abbiamo creato le metropoli) evidentemente appaga un nostro bisogno di purezza, di esattezza formale, di struttura, di ordine compositivo, di ritmo geometrico, di connessione tra il nostro culto delle immagini e un certo tipo di bellezza astratta. E di vuoto. Il che è abbastanza paradossale, il vuoto, voglio dire. In effetti pensateci, la Città Dipinta di primo ‘900 era spesso un’instancabile marcia battuta sulle pietre, un intaso di masse gettate sull’asfalto o all’assalto, metafora o incubo o utopia di folle, follie, ideologie. Metropolis. Anche quando l’uomo non compariva, tutto parlava di lui, e ogni centimetro quadrato della tela ne era inquietamente saturo. Oggi, nell’occhio di celebri fotografi e di così tanti pittori la scena urbana appare nuda, spoglia, architettura evacuata. L’opera di Alessandro Russo si inserisce perfettamente in questo flusso di figure dove l’immaginazione, in gran parte liberata dai corpi e dalle voci – a meno che non chiamiate corpi quel formicolante brulichio di piccoli segni neri che talvolta qui appare - metodicamente scorre lungo le linee e le strade del piacere visivo contemporaneo. Andando velocemente contromano a quanti, magari proprio in questo momento, stanno riprendendo i propri abbracci e sorrisi, intasandone i social, Russo sa fare a meno del desiderio di esserci. Lui sembra uno che passa lateralmente, che si apposta senza dar fastidio a nessuno, spesso ad altezza d’uomo, anzi ad altezza di marciapiede, come un cecchino dalla mira infallibile, un colpo un bersaglio: accidenti, della traiettoria del colpo ti sembra di vedere anche la traccia, ne percepisci forza d’urto, velocità, la traccia in diagonale che ora attraversa, taglia e fa a fette il quadro. O se no, ecco la città vista acrobaticamente dall’alto, dalla fly zone di un drone sorvolante cuspidi, volumi, angoli, profondità. D’altra parte: guardare con la massima intensità possibile, senza essere visti, così fanno i pittori. È una prospettiva di visione utile, interessante, giacché completamente priva di vanità, e però potenzialmente ricca di splendore. Chissà, amiamo la Città Dipinta anche perché siamo un po’ stanchi di noi stessi? Gente, fate largo allo sguardo! Un pittore è un animale specializzato, non vive ovunque, cerca l’habitat più adatto a sè, alle proprie cacce di spazi e bagliori, e se lo trova è felice, felice a modo suo, e non ne cerca altri. Forse, nell’alternarsi di eventi che di volta in volta riferiamo al caso oppure al destino, non siamo nemmeno noi a raggiungere certi luoghi, ma sono loro a venire da noi. Comunque: Milano è da anni il luogo di Russo, la scena che riempie instabilmente i suoi occhi. Instabilmente riempì, un secolo fa, anche gli occhi di un altro artista che, nato in Calabria (lui per caso, però), cercò e trovò gloria a Milano. Stiamo parlando di Umberto Boccioni. E che si trattasse di una Roma calcinata tra i cantieri, o di una Milano delle officine, immersa in un rorido, ottimistico mattino tutto coriandoli e scoppi di luce, per lui la città, traballando, saliva. Adesso che, con i suoi grattacieli, Milano sale anche più di allora, un sensibilissimo pittore calabrese non può che osservarne e catturarne, con la sveltezza e la drasticità con cui solitamente afferriamo ciò che potrebbe svanire da un momento all’altro, l’opalescenza essenziale, lo slancio di una sua speciale iridescenza grigia, come generata da nebbie e vapori, qua e là trafitta da lampi e graffi e placche di colori purissimi. L’esultanza futurista non c’è più? Ammettiamolo, e d’altronde come potrebbe? Tuttavia persiste sempre una certa sensazione, anche in questi dipinti: la città ti sembra che appaia per la prima volta, bella e spettrale, come in un’alba qualsiasi. In fondo così si rafforza la consapevolezza di un’appartenenza intimissima, perché questo è il posto giusto, ti ripeti, dove proteggere la nostra capacità di contemplazione e, riscoprendola come una condizione adulta e felice – o almeno senza soffrirne -, la nostra solitudine. Credo che i paesaggi milanesi di Russo possano davvero piacere a chi ogni volta, di nuovo, scopre come intensamente poetiche le strade che noi viandanti e flaneurs metropolitani attraversiamo; o anche a quanti, non trovandole poi troppo poetiche, in ogni caso stentano ad individuare il loro personale salvavita estetico nel numero di animali uccisi da Damien Hirst, o, gettandovi un occhio svogliato, nell’inutile spiritosaggine di Maurizio Cattelan. E allora continuano inevitabilmente a guardare quel luogo, quelle strade e quelle parti di città, con la medesima inclinazione al turbamento, e perfino alla melanconia che scaturiscono proprio da quadri così. Domanda: alla fine, cos’è che, qui, ancora ci attrae? Risposta con breve elenco: questa prospettiva tiratissima in uno scialo di flash blu-rosso-gialli, che fa assomigliare la Stazione Centrale, la sua volta ferrosa e i suoi binari a una galleria sotterranea, di quelle che i fisici costruiscono per i loro esperimenti, dove ogni scontro e botto tra particelle in corsa è una meraviglia. E poi questo Duomo scorticato, che mai si sarebbe detto di poter rivedere in un quadro (vergogna per chi non sa o non vuole più dipingere facciate di chiese!) e che invece qui appare spavaldamente imprevisto, viva presenza nata da un gesto di devozione laica, o forse da un incontro procrastinato, chissà, perché probabilmente è così che la chiesa di Santa Teresa di Lisieux apparve ad Andreas, nel romanzo di Joseph Roth. Ma vedete come vaga, simile a un clochard, la mente di chi attraversa la patria delle arti? Non faccio in tempo a seguire la linea R che misteriosamente porta da Russo a Roth, che già, più lecitamente, mi viene incontro chi dello scrittore austriaco fu talmente contemporaneo da condividerne persino la scena finale, mentre di Alessandro si presenta come un lontano progenitore: è quel Maurice Utrillo che radente a pochi muri bianchi rese indimenticabile la sua desertica Parigi. In ultimo, svettanti su tralicci di graffi e segni, mi colpiscono tutti questi edifici alti e solitari, questi ombrosi, bluastri solidi sfaccettati, incerti se svanire oppure no, se annullarsi o resistere. Ce ne sono parecchi nel lavoro di Russo, quasi una sua firma. Si ergono ardimentosi e scuri, profilandosi sul chiarore latteo del fondo, sull’evanescente linea dell’orizzonte: sono le nostre mansuete torri di guardia, sentinelle indecifrabili, dunque le più adatte a noi, invisibili passanti.

 

Hidden Milan

Marco Di Capua

Have we ever wondered why the city, throughout time, has never waned in the enormous fascination it holds for artists? In fact, it seems to be a magnet with an irresistible traction force, similar to a metallic, stony, hostile planet. Maybe even a dangerous one. And yet we are certain: artists will never abandon such a scene. They will always land on that planet. Planting flags, taking photos, pointing videocameras, leaving footprints. And painting pictures, obviously. Let’s look at art from the nineteenth century: among its most beautiful paintings are the urban landscapes. So much so that, before 2000, protruding from the frail balcony, we still feel the devoted grandchildren of Ludwig Kirchner, Mario Sironi and Edward Hopper. In fact, even answering the unexpected question posed initially, it is the city which without comparison is the widest, most variable and spectacular aesthetic device invented by man (in a harmonious division of tasks, clearly visible from above, perhap from the porthole of an airplane: if God created heaven and earth, we created the metropolis). The city evidently fulfills our need for purity, formal accuracy, structure, compositional order, geometric rhythm, a connection between our cult of images and a certain type of abstract beauty. And emptiness. Which is quite paradoxical, the void. In fact, the Painted City of the early twentieth century was often a tireless march on stone, a massive inlay on asphalt or of asphalt, metaphor or nightmare or utopia of madness, follies and ideologies. Metropolis. Even when man was not apparent, everything spoke about him, and every square centimeter of the canvas was restlessly saturated. Today, in the eye of famous photographers and many painters, the urban scene appears a nude, bare and evacuated architecture. Alessandro Russo’s work fits perfectly into this flow of figures where imagination, largely free from bodies and voices, - unless one defines the teeming tumults of small black marks that sometimes appear on canvas as bodies - methodically adheres to contemporary visual pleasure. Going in the opposite direction of many, obstructing society and human behavior (i.e. hugs and kisses) as it were, Russo depicts the scene without displaying the desire to be there. The artist appears as one who passes laterally, placing himself where he bothers no one, often at the height of man or even at sidewalk height, where like a sniper with an infallible aim he has a target shot. In the trajectory of the brushstroke, you seem to see also the track and perceive the force of impact, speed and diagonal track that now crosses, slices and makes pieces of the picture. Or if not, here is the city seen acrobatically from above, from the fly zone of an overlooking drone: cusps, volumes, angles and depths. On one hand, this perspective offers the possibility of looking with the most maximum intensity possible, without being seen, such as painters do. This perspective offers a useful and interesting vision, especially as it is completely devoid of vanity but potentially rich in splendor. Who knows? Perhaps we love this Painted City in part because we are bit tired of ourselves. People, look far and wide! A painter is a specialized animal. He does not live everywhere but seeks the habitat most adapt to him, in the search of spaces and illuminations. If the painter finds his habitat, he is happy (at least in his way) and will not search elsewhere. In the alternation of events (that which we often call chance or destiny) sometimes it is not us who arrive at certain places, but rather the places which come to us. Nonetheless: for years, Milan is Russo’s location, it is the scene that precariously fills his eyes. One hundred years ago, the variable Milan scene attracted another artist who was also born in Calabria (by chance), but sought and found glory in Milan. We are speaking of Umberto Boccioni. And thus we have the burned pieces of a Rome amongst the building sites, or one of the Milan workshops, immersed in a rude, optimistic morning, confining and bursting with light. For Boccioni, the trembling city of Milan climbed. With its skyscrapers, Milan climbs even higher today and a sensible Calabrian painter must observe and capture it. Russo does this with ease and a drastic color palette. The essential opalescence, the dash of gray iridescence, as generated by fogs and vapors, interrupted here and there by light flashes and scratches, and plaques of pure color all contribute to the sense of the images’ truth and resonance. Futuristic exultation no longer exists? Let’s face it, and by the way how could it? However, a certain sensation persists, even in these paintings. The city seems to appear as if for the first time, beautiful and spectral, such as at dawn. Ultimately, this reinforces the sense of a very intimate membership, suggesting that the city is a correct place for contemplation. The city is an adult and happy state where one can experience solitude without suffering it. I believe that Russo’s Milan landscapes will truly delight those who, every once in awhile, discover the intense poetry of the metropolis roads along which we walk daily. For those who believe metropolis roads lack poetry, I would thus suggest looking for aesthetic beauty in Damian Hirst’s dead animals or throwing a lazy eye toward Maurizio Cattelan’s idle humor. And then they inevitably continue to look at the city, at those streets and at its parts, still feeling disturbed and uninspired, perhaps even more melancholy due to the fact that paintings are born from it. Question: in the end, what is it that, here, continues to attract us? A short list of responses: an extremely tight perspective in a profligate blue-red-yellow flash which resembles the Stazione Centrale, its ferrous facade and its tracks to an underground tunnel, exactly what physicists build for their experiments, where every encounter between particles is a marvel. And then there is the vehement Duomo, which one would never have expected to see again in a painting (shame on those who don’t know or don’t want to paint church facades!). Here the Duomo appears brazenly unexpected, a presence born from a laic gesture of devotion, or perhaps by a delayed encounter. Who knows? Perhaps it was like this that the Santa Teresa di Lisieux church appeared to Andreas in Joseph Roth’s novel. Do you see the vagueness of a mind of one who travels across artistic disciplines? It is almost vagrant. I don’t have time to follow the R line which mysteriously brings Russo to Roth, even though it legitimately comes to me nonetheless. It is a contemporary of the Austrian writer who could even share the final scene with Russo. Maurice Utrillo was the artist who in a few shining white walls made his desert Paris unforgettable and it is he who could be defined as Alessandro Russo’s distant progenitor. Finally, after these swaying reflections, I am struck by all of Russo’s tall and solitary buildings, which are almost shadowy. It is uncertain if they will vanish or remain, or if they will be undone or resist. There are many of them in Russo’s work, almost as his signature. They are ardently and darkly constructed, profiled in the dim background light, on the evanescent horizon line. They are indeed our domesticated guard towers, indecipherable sentinels, and, thus, perfectly adapt to us, the invisible passersby.

 
 

Il mondo immaginifico della grande città

Vittoria Coen

La città di Milano apre le porte ad una manifestazione che sappia raccontarla. Da molti anni Alessandro Russo vive e lavora a Milano. Quello che è stato messo in evidenza dalla critica è l’amore dell’artista per la metropoli, il luogo dove tutto è possibile, il luogo che si trasforma nel tempo, che si adegua alle nuove esigenze di un mondo sempre più globalizzato e tecnologico. In occasione di questa mostra milanese, il lavoro di Russo appare perfetto proprio per la sua passione coltivata nel tempo attraverso la sua esperienza artistica che lo ha portato a prediligere il paesaggio industriale. Nel tempo, questa inclinazione è diventata un vero e proprio genere, così come la natura morta e il ritratto. È proprio la sua personale lettura di porti, squarci, navi, architetture industriali, stazioni e molto altro, che ci conduce alla scoperta di un vero ecosistema in cui la luce gioca un ruolo estremamente importante. Mi viene in mente un lavoro realizzato due anni fa che si intitola Foschia sulla Cattedrale, un acrilico su cartone in cui il gioco tra luci e ombre copre parzialmente il soggetto. Pennellate ruggenti avvolgono l’architettura immergendoci immediatamente in un’atmosfera particolare, ovattata, senza tempo. Quasi immediato è il rimando alla Cattedrale di Rouen di Monet, rappresentata in vari momenti della giornata dal pittore francese che cercava di immortalare la luce con procedimento quasi scientifico. Molti anni dopo un artista italiano non mira più alla rappresentazione, ma alla presentazione ed interpretazione. Pochi elementi ci suggeriscono il soggetto protagonista ufficiale del quadro, attraversato da pennellate astratte e da segni geometrici trasversali che, oltre a creare ulteriore profondità alla composizione, ci suggeriscono di andare oltre ciò che ci sembra vedere. Eppure il soggetto è facilmente riconoscibile. In molte opere Russo ha messo a fuoco il Duomo di Milano che rappresenta la complessa opera dell’uomo, così come un transatlantico o una fabbrica. La storia è attraversata dall’architettura dei luoghi, che segna il tempo e i cambiamenti. Come diceva Leonardo bisogna saper raccontare l’aria che è fra noi e il soggetto rappresentato. L’artista racconta molto bene quest’aria, questa atmosfera. L’abitabilità è un concetto sempre più soggettivo, al di là delle mode. Sempre più architettura e urbanistica dovrebbero essere inscindibili. L’artista, però, non ha il compito di risolvere queste tematiche, piuttosto ci sollecita a una riflessione che va ben oltre il concetto di welfare. Quale fascino particolare insindacabile hanno i paesaggi desolati delle grandi arterie stradali americane dipinte dalla pittura Pop della West Coast negli anni sessanta! Nell’opera di Alessandro Russo il tratto appare rapido e sapiente, sia quando l’artista opera su carta, sia su tela, con colore acrilico o con l’olio, nelle piccole come nelle grandi dimensioni. I contrappunti cromatici con cui Russo delinea luoghi precisi della città, luoghi che ognuno di noi può riconoscere, sono fatti di segni, traiettorie, fughe, bagliori di luce. Nella sua città «ideale » tutto parla del lavoro dell’uomo, tuttavia l’uomo non è mai rappresentato. Strade, scorci, archi, cantieri, vedono passare automobili, treni, tram, ma non uomini e donne. Eppure, persone e animali popolavano il suo mondo fino dall’inizio degli anni duemila. Come non pensare a opere quali Rogo medievale del 2000 o alla serie dei Comizi? Cito anche quelle Maschere degli anni ottanta e novanta, grotteschi e misteriosi ritratti, e alla svolta successiva dei Paesaggi industriali, con i porti della sua regione, la Calabria, il Rimorchiatore nel porto di Crotone, ad esempio, e molto altro ancora. Ma qui si celebra Milano, la città che ha saputo riconvertirsi in metropoli internazionale, che ha saputo intercettare le istanze contemporanee, che eccelle nella moda, così come nel design. Le due anime della città convivono nell’opera di Russo. Quello che è stato fatto di buono e quello che si può ancora fare. Come molti altri artisti del suo tempo Russo, attraverso la pittura, si fa interprete di un’indagine sociologica, senza erigersi a opinionista. Forse non va dimenticato che la vitalità di un luogo si esprime anche attraverso le sue contraddizioni. La città è un cammino, un percorso, un flusso, e le pennellate dell’artista bene interpretano questo movimento, come se ci trovassimo in auto e vedessimo le case e i monumenti in successione mentre ci muoviamo. Russo sa raccontare, o meglio, evocare, la vitalità di questo ecosistema. Lo fa con gli strumenti poetici dell’artista, con il gesto d’amore più autentico, con la gratitudine verso un luogo di accoglienza e di condivisione. Russo è capace di creare un ponte ideale tra la figurazione e quella forma di astrazione che negli Stati Uniti è stata chiamata action painting. Sì, perché l’impatto che si ha immediatamente quando si entra nel suo studio è, prima di tutto, emozionale. Nel suo lavoro non appare una vera differenza fra astrazione e figurazione. Non esistono esclusioni in una pittura che altro non vuole se non manifestare se stessa con tutta la forza possibile. Il divario storico è scomparso. Al suo posto, nasce una diversa forma di espressione. Non vi è molta differenza tra un cantiere di Milano e uno di New York nell’immaginario di Russo. La metropoli adombra la natura e per questo i cieli dell’artista vanno osservati con particolare attenzione. Cieli azzurri lasciano il posto al grigio, al bianco, o al giallo cromo, così come fu per Sironi quando raccontava l’industrializzazione urbana dell’Italia. L’indagine sulla pittura, la ricerca continua dell’artista, sventolano la bandiera coraggiosa dell’uso di un medium classico per interpretare la contemporaneità. Non si tratta del rifiuto ideologico per le nuove tecnologie, ad esempio, non si tratta di guardare al passato della storia dell’arte, piuttosto di una dichiarazione semplice e lapidaria nello stesso tempo. Chi sa dipingere, dipinga! A dispetto della virtualità.

 

Boundless Creativity in the Great City

Vittoria Coen

Alessandro Russo has worked and lived in Milan for many years. Critics have highlighted the artist’s love for the metropolis, its endless possibility and its ability to transform itself as it adapts to the needs of an increasingly globalized and technological world. On the occasion of this Milan exhibition, Russo’s work is indeed perfectly adapt as it demonstrates his cultivated artistic passion for the industrial landscape. In the course of time, this inclination was rewarded as industrial landscape painting became a proper genre such as the still life and the portrait. It is indeed his personal interpretation of harbors, passages, ships, industrial architecture, stations and much more, which allows us to discover a true ecosystem where light plays a leading role. For example, Mist on the Cathedral, an acrylic on cardboard work realized two years ago, reveals the play between lights and shadows which partially cover the subject. Rugged brushstrokes envelop the architecture. We are immediately immersed in a particular and muffled atmosphere which is indeed timeless. Almost instantaneously, we are reminded of Monet’s Rouen Cathedral which the French artist depicted in various moments of the day as he sought to capture light by an almost scientific process. Many years after Impressionism, the Italian artist Russo does not aim at representation but instead presentation and interpretation. Few elements indicate the official protagonist of the picture as it is crossed by abstract brushstrokes and transverse geometric signs, adding more depth to the composition and suggesting to the viewer to look beyond what is immediately visible. However, despite possible distractions, the subject remains easily recognizable. Milan’s Cathedral is the focus of many of Russo’s works. In the same way as a transatlantic ocean liner or a factory, the Milan Cathedral represents a complex project realized by man. A story is told by the architecture of places, marking time and changes. In the prescient words of Leonardo da Vinci, one must know how to depict the space between us and the subject represented. Russo illustrates this air and this atmosphere very well. Habitability is an increasingly subjective concept, beyond trends. New architecture and town planning should be inseparable. The artist is not burdened with the task of solving these issues, but his role is to urge us to think beyond our own personal welfare. As illustrated by Pop Artists in the 1960s, desolate landscape paintings of West Coast American roads possess an unmistakable charm! In Alessandro Russo’s work, his stroke appears rapid and knowing — this is true for his work on both paper and canvas, in his use of acrylic color and oil, and in his small paintings as well as those of greater dimensions. The chromatic counterpoints that Russo uses to outline precise places in the city (which are in fact places universally recognizable) are made of signs, trajectories, breaks and flashes of light. In his «ideal» city, everything speaks to man’s work, yet man is never represented. Roads, passages, archways and yards see cars, trains and trams, but not men and women. And yet, since the beginning of the 2000s, people and animals have populated Russo’s world. How can we not think of works such as Medieval Stake (2000) or of the Comics series? Also worth mentioning are the grotesque and mysterious portraits Masks (1980s and 1990s) and followed by the Industrial Landscapes, with the ports of Russo’s Calabria region, the Tugboat of Crotone Port for example, and much more. But in this exhibition we celebrate Milan, the city which has transformed itself into an international metropolis which has succeeded in staying contemporary as it excels in both fashion and design. The two souls of the city live in Russo’s work: that which has been done well and that which can still be done. As many artists of his time, through his painting Russo proposes a question for society but does not render an opinion. One should not forget that the vitality of a place is expressed through its contradictions. The city is a path, a journey, a flow, and the artist’s brushstrokes flawlessly interpret this movement. It is as if we are in a car and we see the houses and monuments in succession as we move. Russo knows how to narrate, or, better still, evoke the vitality of this ecosystem. He does this with the poetical instruments of an artist, with a gesture of love, and with gratitude toward a hospitable and welcoming place. Russo is capable in creating an ideal bridge between figuration and a form of abstraction which is called «action painting» in the United States. Indeed, upon entering Russo’s study, the initial impact is emotional. In the artist’s work, there is no significant difference between abstraction and figuration. There are no exclusions; painting seeks only to manifest itself with all its possible force. The historic gap has disappeared. In its place, a different form of expression is born. Similarly, in Russo’s imagination, there is not much difference between a Milan construction site and a New York construction site. The metropolis obscures nature and for this reason the artist’s skies must be observed with particular attention. Gray, white and yellow chrome take the place of blue skies, as it did for Sironi when he illustrated Italy’s urban industrialization. Russo exemplifies an artist who is constantly pursuing and investigating, bravely forging ahead using a classic medium in order to interpret contemporaneity. It is not an ideological rejection of new techniques nor is it turning backward in art history, but rather a simple and concise declaration. Who knows how to paint, paint! In spite of the virtuality.

 
 

Alessandro Russo, il nuovo paesaggismo della Liquid modernity

Alessandro Riva

Alessandro Russo è uno di quei pittori, di cui la grande storia dell’arte è assai ricca, ma che oggi si ha a volte l’impressione che stiano andando fatalmente scomparendo, dal talento sempre intatto, naturale e spontaneo, in grado di dipingere il volto di uno strano essere, metà animale e metà umano, o il cielo di Calabria arrossato dai fumi densi di una qualche ciminiera, o l’immobiliità di un porto industriale con i suoi tozzi pachidermi galleggianti, o ancora il nuovo paesaggio verticale di una città in rapida trasformazione come la Milano del 2014 con stessa, identica fluidità e felicità di tratto e di colore, con la stessa accesa intensità dei toni, con la stessa gioia e libertà di segno che fa sì che ogni suo lavoro, anche il più insolito o il meno prevedibile, sia comunque facilmente attribuibile a lui, poiché vi si riconoscono indiscutibilmente la stessa caratura dei toni, la stessa felicità del tratto, la stessa freschezza del segno che scorre veloce sulla tela senza incertezze, senza inciampi, insieme solidamente costruendo l’architettura del dipinto e allo stesso tempo lasciando che esso si compia in qualche modo da sé, quasi magicamente, in forma potremmo dire alchemica, attraverso il libero gioco delle linee che vanno rincorrendosi lungo la superficie, e l’instabile movimento del colore, e il flusso vibrante delle pennellate che, come nella migliore tradizione dell’informale europeo, e quasi richiamando istintivamente alla mente lo spandersi morbido e sapiente dell’acquerello sulla carta, gradatamente si fa esso stesso struttura, composizione, schema.
La felice invenzione e novità del lavoro di Alessandro Russo si compie tutta lì, in quel suo saper mescolare insieme l’assoluta libertà del segno e la solidità della struttura architettonica, la sapienza nell’uso dei toni e dei colori e la ferrea scienza della composizione, in breve nel saper unire, in una singola, armoniosa libertà inventiva, levità e rigore.
Alessandro Russo nasce nel 1953 a Catanzaro, dove per decenni decide di rimanere a vivere e a lavorare, continuando allo stesso tempo a dipingere e a insegnare come docente all’Accademia, prima di trasferirsi finalmente a Milano. Il suo attaccamento alla sua terra d’origine è, nel suo percorso artistico, insieme un elemento di forza e di debolezza: di forza, perché è lì, da quel paesaggio contraddittorio, insieme meravigliosamente primitivo nella sua naturale e straordinaria crudezza e tuttavia attraversato dai germi di un’industrializzazione e di una modernizzazione contraddittorie e spesso maldigerite, che ha origine l’energia fremente, calda, nervosa, mediterranea che traspira, come un sottofondo di energia malrepressa, da tutto il suo lavoro; e di debolezza perché la carenza di contatto con i luoghi della contemporaneità più avanzata impediscono al suo lavoro da una parte di farsi adeguatamente conoscere, come meriterebbe, in un ambito nazionale ed europeo, e dall’altra alle volte anche di volare più alto, lontano da un’iconografia che ha ancora troppo addosso il sapore di certa tradizione novecentesca. Eccolo, allora, indugiare, seppure già con una felicità espressiva e coloristica del tutto rare, per anni in carnevali, cortei, comizi e simboliche parate strapaesane, dove i volti di un alto prelato, di un politico o di un magistrato (figure simboliche dell’incarnazione iconografica della smorfia grottesca del Potere tipica dei piccoli centri della provincia italiana, benché imperanti, ma con minor evidenza iconografica e con minor carica allegorica, anche nei grandi centri urbani della contemporaneità avanzata) si mescolano, orwellianamente, o come in una trasposizione contemporanea delle favole di Esopo, a volti bestiali, quali quelli di cavalli, maiali, cornacchie, ed altre simbolicissime maschere zoomorfe. Tale ochieggiamento a poetiche e iconografie tipicamente otto e novecentesche (dallo stesso Maccari, a Ensor, per scendere giù fino a Goya o a Daumier), retaggio e insieme parodia di un mondo ancora angusto, grottescamente vanesio e arrogante nella sua piccola protervia campanilistica, è però, già da tempo, alleggerito non solo da un segno che sa farsi fluido e a tratti, viceversa, persino ferino nel suo vigore e nella sua fremente organicità coloristica, ma anche da tele dai soggetti che si vanno via via, col tempo, sempre più rarefacendosi, perdendo la loro carica più giocosa e popolare, per arricchirsi di toni via via maggiormente aulici e poetici, con attitudini a volte quasi drammatiche: aprendosi progressivamente su scene d’insieme, sulla fremente temperatura di paesaggi ripresi sempre più spesso nel pulsare di una fortissima carica evocativa, in un gioco di toni, umori, felici invenzioni coloristiche in grado di trasformare i toni cangianti di un cielo annuvolato dalle fumarole di alte ciminiere in veri pezzi di bravura e di raffinatezza coloristica che nulla hanno da invidiare alla migliore tradizione informale, o il campo lungo di un paesaggio ripreso dall’alto in una rigorosa composizione che sarebbe arduo non associare alla lezione dell’astrattismo classico.
In questo modo si delineano i tratti di quello che oggi potremmo definire senza ombra di dubbio lo stile inconfondibile di Alessandro Russo, rintracciabile ovunque sotto la superficie cangiante dei diversi temi via via affrontati.
Di questi temi, è oggi soprattutto la città, e in particolare la Milano in rapida trasformazione, a divenire uno dei temi portanti della nuova e più interessante produzione dell’artista. La città è sempre stata, fin dall’Ottocento, il fulcro della vita moderna, del caos, del dinamismo. Per tutto il Novecento la metropoli è stata, davvero, ancora il fulcro della modernità: quello che che permetterà agli artisti di superare il concetto di città come uno dei tanti luoghi possibili per diventare “il luogo” per eccellenza, il luogo delle relazioni, delle mutazioni, delle contraddizioni. Pensiamo alla spinta data dal Futurismo in questo campo (“possiamo noi rimanere insensibili alla frenetica attività delle grandi capitali?”, si chiedeva retoricamente Marinetti) per rendersi conto come, da oltre un secolo, il concetto di città sia legato indissolubilmente all’idea di movimento, di dinamismo e di un ben organizzato caos. Molti artisti, in questi anni, hanno celebrato il paesaggio urbano. Si può anzi dire che l’idea stessa di città abbia mutato forma, nel nostro immaginario, grazie al lavoro di moltissimi artisti (pittori e fotografi) che hanno scelto questo tema come soggetto privilegiato del loro lavoro. Ne è nato – tra gli anni Novanta e i Duemila – un lavoro collettivo sul paesaggio urbano che ha influenzato molta della nuova arte italiana ed europea.
Alessandro Russo si è inserito in questo filone già battuto e sperimentato con la naturalezza e la freschezza di un giovane artista: come un giovane, per la scioltezza e novità del tratto, benché tecnicamente già assai consapevole, che abbia, evidentemente (malgrado l’amore per la sua terra natale), viaggiato molto, soprattutto in Germania e in nord Europa, dove certo rigore e amore del disegno tutto italiano si stemperano con una maggiore fluidità del segno e una libertà dei mezzi espressivi che da noi faticano un poco ad attecchire. E, beninteso, un giovane che abbia saputo e sappia governare con mano ferma e forte consapevolezza tecniche, stili, riferimenti incrociati a ciò che è passato sotto i ponti in un centinaio d’anni di avanguardie e soprattutto quel difficile, delicatissimo rapporto tra realtà e rappresentazione che è il fulcro del problema dell’immagine dipinta di questi ultimi decenni - dove la rappresentazione oggi passa, inevitabilmente, per il complesso e ambiguo rapporto con la fotografia e l’immagine mediale.
In questo ciclo di paesaggi urbani Alessandro Russo riesce, con un gioco d’equilibrio straordinariamente bilanciato e tenuto come su un filo di un costante precipizio, a mediare tra necessità di rimanere ben saldo all’interno dei codici e degli statuti propri del mezzo pittorico e una certa, vaghissima allusività ai mezzi tecnologici della fotografia, del cinema, dell’immagine riprodotta; le sue sono, non c’è dubbio, città pittoriche in tutto e per tutto, che a tratti richiamano alla mente echi di certo informel europoeo, di certa libertà espressiva assai poco radicata nella tradizione italiana: pensiamo a quei cenni, a quei tocchi di rossi, di gialli, di azzurri che compaiono, come misteriose apparizioni, qua e là sulle strade della nuova “Milano verticale”, in rapida e ben organizzata espansione, come reminiscenze d’altri sguardi, d’altre fantasie e d’altre tinte, che parrebbero prescindere dalla tavolozza d’un classico pittore di paesaggio urbano italiano: non è il realismo pop, o neopop, oggi molto in voga ovunque; non è l’iperrealismo di derivazione americana, e tuttavia non è neppure il sironismo, il dechirichismo o il casoratismo di cui molta nostra pittura di paesaggio è stata, ed è tutt’ora, e malgrado tutto, permeata; è, semmai, un complesso e fluido gioco a rimpiattino con lo spettatore, un felice gioco di rimandi e di toni che ci illude quasi di ritrovare, che so, un tocco alla De Stael in mezzo a un banco di nebbia milanese, travestito però da spartitraffico, o da cartello stradale; o magari, anche, assai incongruamente, uno squarcio alla Wim Wenders in mezzo alla rigida ripetitività delle linee dei nuovi grattacieli della città lombarda, in quel trovare inaspettate vie di fuga, e improvvise atmosfere da road movie americano in mezzo alle strutture e alle ben calibrate geometrie novecentesche milanesi. In questo modo, Alessandro Russo riesce a declinare il tema del paesaggio, pur già battuto in quest’ultimo decennio da tanti suoi colleghi e compagni di strada, con un’attitudine del tutto nuova, quasi avesse portato, in quel nuovo sguardo sulla nuova “città che sale” di boccioniana memoria, da una parte un po’ della sua fremente vocazione mediterranea, come se avesse recato con sé la memoria del colore e della luce della sua terra d’origine, e dall’altra la grande libertà di certa pittura europea, che gli ha permesso di volare alto, lontano da certe rigidezze di molta pittura italiana di paesaggio di questi ultimi decenni, arrivando così a delineare una diversa visione del paesaggio, sia quello urbano che quello postindustriale, con la realizzazione di uno scenario nuovo: uno scenario fatto di colore, di atmosfere, di toni cangianti e di linee verticali e orizzontali che, nella loro felice geometria e nel loro progressivo rarefarsi rispetto all’immagine reale del paesaggio milanese, di cui pure mantengono intatto il puntuale riferimento iconografico, sembrano realmente andare a creare un immagine del tutto nuova, inedita, una sorta di nuovo scenario simbolico della postmodernità avanzata, del tutto libero, quasi astratto, privo di confini e quasi anche di immediati riferimenti geografici o temporali; uno scenario che potremmo dire fluido, o addirittura liquido (secondo l’immagine felice – e fortunata – di Zygmunt Baumann, teorico della Liquid modernity): dotato, cioè, di quella freschezza aerea, immaginifica e visionaria che solo certi pittori alla soglia della migliore maturità artistica sanno felicemente (ri)trovare.

 
 

I testi sono tratti da:

ALESSANDRO RUSSO. MILANO. LA CITTÀ DIPINTA, edita da Panorama d'Italia.

ALESSANDRO RUSSO - CITTÀ VISIBILI - POST-INDUSTRIALE - PORTI - PROFILI URBANI, edita da La Spirale Idee Milano.